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Tunisia: si stava meglio quando si stava peggio?

  • Immagine del redattore: Max RAMPONI
    Max RAMPONI
  • 1 nov
  • Tempo di lettura: 4 min


tunisia


Non faccio politica. Non rappresento partiti, ideologie, interessi o programmi. Questo blog non è un manifesto di parte, ma un osservatorio libero su ciò che accade, in Tunisia e altrove. L’unico vincolo è la realtà, anche quando è scomoda o impopolare. Scrivere non significa schierarsi: significa guardare, capire, restituire. La Tunisia non è un argomento, è un laboratorio umano e sociale dove convivono contraddizioni, cicatrici, speranze e amnesie. Raccontarla significa attraversarla, non giudicarla. Questo spazio nasce con un intento semplice: fare analisi obiettiva, senza slogan, senza agende, senza il filtro dei comunicati ufficiali. Se la verità disturba, meglio: il giornalismo serve proprio a quello. Qui non si difendono governi, non si attaccano opposizioni: si raccontano fatti, si studiano conseguenze, si cercano domande che altri evitano di porre. Lost in Tunisia restano un luogo indipendente, senza pubblicità, sponsor o linee editoriali imposte. Ciò che leggi è il risultato di una scelta: quella di pensare con la propria testa, in un mondo che chiede di scegliere un campo. E a volte, il campo più onesto, è quello di nessuno.

La frase gira sempre più spesso, in Tunisia: “si stava meglio quando si stava peggio.” È una frase sporca, sgrammaticata, socialmente pericolosa, ma che nasce da una logica brutale: oggi, per molti, il problema non è la politica astratta, è la sopravvivenza quotidiana. È il carrello della spesa che raddoppia, è il carburante che sale, è il contrabbando che si infiltra ovunque, è il farmacista che ti dice “non c’è” per la terza farmacia di fila, è la frustrazione che ti rode il fegato. Ben Ali era un dittatore, questo resta un dato storico e non si discute: nessuno con memoria onesta può rimpiangere la repressione, il bavaglio, la paura dei muri che ascoltano. Ma qui la nostalgia non è verso la dittatura come regime: è verso la capacità di far girare le cose, anche se con metodi tossici. Oggi la Tunisia ha libertà teorica e caos logico: la libertà c’è sulla carta, ma la vita reale è salita di costo e scesa di qualità. E quando la vita peggiora, la gente non rimpiange l’autorità: rimpiange l’efficienza.


Perché parliamoci chiaro: la rabbia oggi nasce dal frigorifero che si svuota, non dalle ideologie. Nasce da un ceto medio che oggi è diventato fragile, quasi autodissolto, con uno stipendio che non arriva più a fine mese perché i prezzi non stanno salendo — stanno galoppando. Nasce dal fatto che i medicinali primari mancano, e la gente deve girare 5 farmacie per un antibiotico. Nasce dal fatto che ogni settore è diventato una giungla di speculazioni: ogni settore ha i suoi predatori, le sue cricche, le sue filiere parassitarie, le sue “commissioni”. Prima mangiavano in pochi. Ora mangiano in tanti. Prima la corruzione era verticizzata in poche famiglie e pochi cerchi. Oggi è diffusa, capillare, disordinata, atomizzata. Tutti mangiano un po’. Ma nessuno sa costruire. Non c’è una guida. Non c’è una direzione. Non c’è una linea. E ogni giorno spunta un nuovo intermediario che ti chiede qualcosa per sbloccare una pratica che sulla carta dovrebbe richiedere 24 ore e nella realtà richiede 24 giorni.


Non serve nominare nessuno. La Tunisia oggi si racconta da sola con il labirinto burocratico che ha costruito. Ogni ufficio pubblico è un frammento di una macchina inceppata. Ogni riforma annunciata è una promessa che evapora. Ogni regolamento è un PDF che non cambia nulla. Ogni decreto è una parola che non arriva mai nelle mani dei cittadini. E intanto i prezzi salgono, i beni mancano, e la gente guarda il presente come un campo di battaglia senza generali.

E quindi sì, la frase “si stava meglio quando si stava peggio” non è un desiderio di ritorno all’autoritarismo: è la fotografia del fallimento della gestione. È l’ammissione che la libertà senza efficienza è una libertà vuota. Che la democrazia senza risultati è una democrazia caricaturale. Che il popolo tunisino non vuole caserme: vuole uno Stato capace. Perché un Paese non vive di slogan: vive di benzina a prezzo normale, di pane disponibile, di medicine sugli scaffali, di regole applicate e non solo scritte. E allora questa frase terribile — “si stava meglio quando si stava peggio” — non è la dichiarazione d’amore a un dittatore vecchio. È la confessione che i nuovi hanno costruito poco e distrutto tanto. È la constatazione che qui non si tratta più di ideologia: si tratta di vita reale. E la vita reale oggi, per molti tunisini, è diventata più dura di ieri.

📌 Fonti e link utili all'artitolo: TUNISIA si stava meglio quando si stava peggio?

  • Tunisia Economic Monitor – World Bank (2023–2024)

  • Tunisia Country Data: Inflation, Poverty, Youth Unemployment – World Bank Open Data

  • IMF Country Reports: Tunisia macroeconomic overview 2024 – International Monetary Fund

  • Analysis: Tunisia’s Middle Class Under Pressure – Carnegie Middle East Center

  • Tunisia: The Elusive Transition – Brookings Institution

  • Food inflation and purchasing power in Tunisia – African Development Bank Research

  • Shortages of essential medicines in Tunisia – Al Jazeera Investigations

  • Pharmaceutical supply chain bottlenecks – Reuters Special Report

  • The Fragmentation of Corruption Networks in Post-2011 Tunisia – Journal of North African Studies

  • Tunisia: the post-2011 political economy – Middle East Institute

  • How Tunisia’s bureaucracy suffocates reform – Financial Times Analysis

  • Speculation and informal networks in domestic trade – Oxford Middle East Policy Papers

  • The Legacy of the Ben Ali Regime – Human Rights Watch Dossier

  • Tunisia 2021–2025: warning signs on civil space – Amnesty International Briefing Paper

  • Tunisia: the cost of living crisis – BBC Arabic Economic Desk

✍️ Testo di Max Ramponi

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