Quel manifesto che diceva “Vieni in Tunisia”
- Max RAMPONI

- 25 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 27 ott

C’era una volta un ragazzo seduto in un bar che guardava un manifesto attaccato al muro. C’era scritto, in lettere grandi e un po’ stinte, “Vieni in Tunisia”. Non sapeva neppure dov’era, la Tunisia, ma bastava quella frase per aprire una breccia dentro la sua testa piena di inverni e di autobus. Quel manifesto prometteva una fuga, un orizzonte, una possibilità di luce. Lo cantava anche Baglioni, in Poster, quando l’Italia era un paese di valigie e malinconie, e bastava una parola per sognare un altrove. Vieni in Tunisia non era solo uno slogan: era una preghiera laica rivolta a tutti quelli che avevano voglia di respirare diversamente, anche solo per un’estate.
Era l’Italia dei sogni in bianco e nero, delle partenze improvvisate e dei ritorni rimandati. Un’Italia che si accontentava di poco ma desiderava tutto. E quel “Vieni in Tunisia” sembrava la scorciatoia per la felicità: mare azzurro, datteri lucidi, cupole bianche e silenzi arabi. Poi, però, atterravi a Tunisi, e la realtà cominciava a sbriciolare la cartolina. Lì finiva il poster e cominciava la sabbia vera — quella che ti entra nelle scarpe e nella testa, che non si scrolla via nemmeno dopo anni.
La Tunisia non era quella del manifesto. Era viva, ruvida, disordinata. Non un set fotografico, ma un palcoscenico senza regia, dove la gente ride, si arrabbia, suda, ama. Scoprivi che “Vieni in Tunisia” non era un invito turistico, ma una sfida. Vieni, sì — ma poi resta. O almeno, prova a capire. La Tunisia non ti accoglie, ti misura. Ti toglie le certezze e ti regala orizzonti. Ti insegna che la libertà non è nelle destinazioni ma nel modo di guardare.
Io ci sono venuto davvero, in Tunisia. E non ho trovato il sogno, ho trovato la verità. L’ho capita poco per volta, nelle notti d’estate, nei caffè con le sedie scompagnate, nei sorrisi che valgono più di mille visti. Ho capito che il “Vieni in Tunisia” del poster non era una bugia, era solo incompleto. Perché ti invita a partire, ma non ti dice che la Tunisia ti cambia. Ti toglie la pelle vecchia, quella delle convinzioni, e te ne mette addosso una nuova, fatta di sabbia e lentezza.
Riascoltare oggi Poster è come aprire un vecchio album trovato in soffitta. Dentro c’è un’Italia ingenua e bellissima, che credeva ancora alle promesse scritte sui muri. Quel “Vieni in Tunisia” oggi suona come un’eco, un richiamo lontano che resiste a mezzo secolo di disincanto. Non è più un invito turistico: è un modo per ricordare che il viaggio comincia sempre con un’immagine, ma diventa vero solo quando quell’immagine si rompe.
Non esistono più quei manifesti, oggi ci sono algoritmi che ti sussurrano partenze a rate. Ma l’illusione è la stessa. “Vieni in Tunisia” continua a vivere in chi sente che deve andarsene per capire dove sta. E forse è questo che resta, dopo tutto: il bisogno di rispondere a quell’invito, anche solo con un passo, anche solo per ritrovarsi altrove.
Perché la Tunisia non è un sogno da comprare. È una realtà da attraversare. E ogni tanto, per capire davvero la vita, bisogna farlo: alzarsi, guardare quel manifesto sbiadito e dire sottovoce, quasi per se stessi — va bene, vengo in Tunisia.
✍️ Testo di Max Ramponi
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