Il giorno in cui trovai Roma in mezzo alla Tunisia: l’Anfiteatro di El Jem
- Max RAMPONI

- 28 ott
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 29 ott

Qualche giorno fa avevo scritto dei tre colossei più grandi del mondo: Roma, Capua ed El Jem. Tre monumenti gemelli separati da mari e secoli, ma uniti dalla stessa fame di eternità. Scrivendo quell’articolo, mi è tornata in mente la prima volta che vidi l’anfiteatro di El Jem, non in una foto o in un documentario, ma dal vivo, al termine di un viaggio lento e bollente nel cuore della Tunisia.
Era il 2001. Avevo trent’anni, una Opel Corsa nera senza aria condizionata e una Lonely Planet che non avevo mai aperto, poggiata sul sedile del passeggero come un amuleto scomodo. Me l’aveva regalata la mia ex il giorno dopo che le avevo detto che partivo per la Tunisia. Un regalo, certo. Ma suonava come una sentenza: vai pure, e sparisci. All’epoca l’autostrada partiva da Tunisi e finiva a Msaken. Poi niente: si usciva a Borgine e da lì cominciava la vera Tunisia. La statale che scendeva verso Sfax era una linea di asfalto ruvido e bollente, un nastro grigio che si srotolava tra distese infinite di ulivi. L’asfalto produceva un rumore costante sotto le ruote, un ronzio che si mescolava al frinire dei grilli e al suono del vento caldo che entrava dai finestrini aperti. Non c’erano guardrail, non c’erano aree di servizio, solo l’orizzonte e quella sensazione costante di attraversare un paese immobile, scolpito nella luce.
Ogni venti chilometri, un villaggio. Case basse, allungate lungo la carreggiata, come se tutta la vita si svolgesse sul ciglio della strada. Hencha, Kerker, El Alia, Zriba… nomi scritti su cartelli piegati dal vento, spesso coperti di polvere. Davanti alle porte, vecchi seduti su sedie di plastica, bambini scalzi che inseguivano i cani, carretti carichi di angurie e pomodori, e donne avvolte nei foulard che vendevano cipolle o melanzane su teli stesi a terra. Tutto odorava di terra secca, di gasolio, di vita lenta.
Ogni tanto, ai bordi della statale, apparivano quelli che qualcuno avrebbe potuto chiamare “ristoranti”. Ma “ristorante” è una parola grossa. Erano costruzioni di fortuna: quattro muri, un tetto di lamiera, qualche tavolo e sedia di plastica, e una griglia nera piazzata proprio davanti alla strada. Lì, appese a testa in giù, penzolavano le carcasse fresche di montone, ancora calde, uccise secondo il rito musulmano. Accanto, le altre bestie vive osservavano la scena, immobili, come se sapessero che presto sarebbe toccato a loro. L’aria era spessa di fumo bianco e sangue, e l’odore della carne sulla brace arrivava in macchina a metri di distanza.
Quando passavi d’estate, coi finestrini abbassati, quell’odore ti invadeva completamente. Ti entrava nei vestiti, nei sedili, nei capelli. Rimaneva per giorni. Ma era irresistibile.Spesso, tornando a Sfax, mi fermavo. Parcheggiavo la macchina accanto a una fila di vecchi camion carichi d’olive e sceglievo un tavolo di plastica, di quelli sbiaditi dal sole, traballanti. Poi mi avvicinavo alla griglia, sceglievo il pezzo di carne e indicavo il peso. L’uomo dietro il fuoco annuiva in silenzio, lanciava la carne sulla brace e subito il fumo si alzava, denso, bianco, odoroso.
Nel frattempo arrivava il pane, il tabouna, tondo, cotto nel forno a legna, ancora caldo. Poi una ciotola di insalata méchouia, con i peperoni grigliati, l’olio d’oliva e l’uovo sodo in cima, e una di harissa, rossa e piccante, con un filo d’olio che luccicava sotto il sole. Niente tovaglioli: solo fogli di carta sottile come quella del salumiere. Da bere, bottiglie di vetro di Coca-Cola, fredde e appannate, con l’etichetta mezza staccata. E alla fine, quando avevi finito e le dita sapevano di carbone e spezie, ti alzavi, andavi al lavandino accanto alla griglia, aprivi il rubinetto di metallo e ti lavavi le mani sotto un getto d’acqua tiepida. Quella era la Tunisia. Cruda, vera, e bellissima.
Poi risalivo in macchina. La strada riprendeva, sempre dritta, sempre uguale. Il sole a picco, i sacchetti di plastica trascinati dal vento tra i cespugli, i fichi d’India come sentinelle ai lati della carreggiata. E ad un certo punto, dopo un lungo tratto di nulla, comparve. All’inizio era solo un’ombra lontana. Una massa scura che si stagliava contro il cielo bianco. Pensai a un vecchio fortino, a una roccia, a un miraggio. Ma man mano che avanzavo, la forma cambiava, si definiva, prendeva proporzioni umane e poi subito disumane. Archi. Colonne. Una curva perfetta di pietra e vuoto.

E fu allora che lo capii: era un colosseo. Un colosseo vero. L’anfiteatro di El Jem.
Non c’è niente che ti prepari a una simile apparizione. Arrivi da nord, dopo chilometri di silenzio, e d’un tratto lo vedi lì, immenso, solitario, piantato in mezzo alla steppa come un monumento alla follia umana. Non su una collina, non in una capitale, ma in un villaggio qualsiasi, tra carretti, fichi d’India e bambini che giocano con pneumatici bucati. Svoltai a sinistra, seguendo un cartello arrugginito. La strada entrava nel paese, poi improvvisamente finiva. Letteralmente. Finiva contro il colosseo. Davanti a me, la pietra. Ocra, dorata, viva.Spensi il motore e rimasi fermo. Il vento portava sabbia e silenzio. C’era solo quell’immenso corpo di pietra davanti a me, e la sensazione precisa di essere finito nel posto sbagliato del mondo.

L’anfiteatro di El Jem non è un monumento. È un’anomalia, un errore geografico che resiste da diciotto secoli. Tre ordini di arcate sovrapposte, un’arena per trentamila persone in una città che oggi ne conta forse un decimo. Lo costruirono nel 238 d.C., quando Roma cominciava già a sbriciolarsi, ma la sua ambizione no. Qui, nel cuore della Tunisia, volle lasciare il segno della sua arroganza: la gloria anche dove non serve.

Camminai attorno alle mura. Ogni pietra sembrava respirare. Dentro, l’aria era più fresca, sapeva di calcare e vento. I gradoni si arrampicavano verso il cielo e il sole filtrava dagli archi, disegnando sul pavimento arabeschi di luce. Mi fermai al centro dell’arena, chiusi gli occhi. Il silenzio era quasi fisico. Potevi sentirci dentro il rumore lontano di un urlo, il clangore di una spada, il respiro di una folla. Ma erano solo echi.

Da allora, ogni volta che scendo da Tunisi verso Sfax, quando arrivo a quel punto della strada, rallento. Guardo verso sinistra.E ogni volta, l’anfiteatro di El Jem è ancora lì. Immobile, testardo, bellissimo. Come se il tempo avesse deciso di fermarsi proprio in quel punto e dire: “basta, qui resto.”
✍️ Testo di Max Ramponi🌍
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