Thugga: la città romana che non smette di respirare
- Max RAMPONI

- 29 ott
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 31 ott

Certe strade non portano solo da un luogo all’altro: ti portano indietro nel tempo.Quella che unisce Tunisi a Thugga — o Dougga, come la chiamano gli archeologi — è una di queste. È la strada che attraversa la Tunisia romana, quella che ancora respira tra i campi e le colline, dove ogni pietra sembra custodire un’eco dell’Impero.
Era un mattino chiaro, di quelli in cui l’aria sa già di calore e di polvere. Molti anni fa, prima che fosse costruita l’autostrada Tunisi-Béja, il viaggio verso Thugga era un’avventura. Si partiva da Tunisi e si lasciava alle spalle il traffico brulicante della capitale, imboccando la vecchia strada che passava per Sidi Hassine. Sidi Hassine era un concentrato di caos tunisino: venditori ambulanti che gridavano offerte di frutta e meloni, bambini che correvano tra le macchine, carretti traballanti, vecchi Peugeot 404 carichi fino al parabrezza, e autobus scassati che tossivano fumo nero. Le case, basse e irregolari, si alternavano a officine improvvisate e piccoli caffè dove gli uomini giocavano a domino fin dal mattino.
Poi, quasi senza accorgertene, la città finiva. Il rumore si dissolveva, e restavano solo le colline e la strada. La Tunisia cambiava volto. Da qui in poi era un’altra storia: quella della Tunisia rurale, la stessa che i Romani avevano conosciuto duemila anni prima, fatta di uliveti, muretti a secco e vento.

La statale correva stretta, senza barriere né corsie di emergenza. Ai lati, distese di campi arati, greggi di pecore, e qualche contadino chino a raccogliere olive o a controllare un trattore arrugginito. L’asfalto era ruvido, pieno di buche, e il cielo così grande da sembrare una cupola di vetro. Ogni tanto un odore di brace arrivava da qualche casa isolata, mischiandosi a quello dell’olio e della terra.
Dopo circa un’ora, appariva Testour. Un nome che sembra arabo ma che nasconde una lunga storia andalusa. Fondata nel Seicento da profughi musulmani espulsi dalla Spagna, Testour è un gioiello sospeso nel tempo, con le sue case bianche, i tetti rossi e un minareto con l’orologio che gira al contrario, come se qui il tempo avesse deciso di ribellarsi. Attraversarla significava rallentare: le strade strette, le botteghe con le porte spalancate, i venditori di miele e formaggio, il profumo di caffè e di pane tabouna appena sfornato.

Lasciando Testour, la strada si faceva più solitaria. Le colline diventavano più alte, più verdi, e la Tunisia sembrava farsi più antica a ogni curva. Poi, all’improvviso, un lago. Il lago di El Mellegue, con le sue acque ferme e azzurre, appariva come un miraggio in mezzo al paesaggio asciutto. Sulle sponde, canne, uccelli e un silenzio che sembrava custodire segreti di epoche lontane. Ti fermavi un attimo, accendevi una sigaretta, e restavi a guardare quel blu immobile, sapendo che di lì a poco avresti toccato la storia.

Da quel punto iniziava la salita verso Béja. Le curve si moltiplicavano, i panorami si aprivano, e il paesaggio diventava montuoso, quasi mediterraneo, con pini, querce e rocce rosse. Béja appariva come un nido appollaiato tra le alture, una città che ha conosciuto Fenici, Romani, Bizantini e Arabi, e che ancora oggi conserva un’aria sospesa, di confine. Attraversandola, si intravedevano resti di mura, archi antichi, e una piazza rumorosa di taxi collettivi e mercati improvvisati.
Poi la strada si faceva di nuovo solitaria. Il traffico spariva, e davanti si apriva l’ultimo tratto: le montagne di Teboursouk. Qui la Tunisia si faceva silenziosa e severa. Le curve si stringevano, la terra diventava rossa e l’orizzonte si piegava in un mosaico di colline. Ogni tanto una casa isolata, qualche mandria di capre, un vecchio furgone carico di olive. Il cielo, sempre più basso, sembrava toccare la terra.
E fu proprio tra quelle montagne che, all’improvviso, apparve Thugga, la città romana meglio conservata di tutta la Tunisia.All’inizio era solo un riflesso bianco, un colonnato in lontananza, ma man mano che ci si avvicinava, le pietre cominciavano a raccontare. Lì, tra l’erba alta e i muretti spezzati, riposavano i resti dell’antica Dougga, capitale di un mondo che non c’è più ma che non ha mai smesso di parlare.
Mi fermai sul ciglio della strada, con la macchina che ancora vibrava. Davanti, la pianura si apriva e il sito archeologico di Thugga si stendeva come un tappeto di pietra. Il vento portava odore di timo e di sole, e in lontananza il profilo delle colonne sembrava ondeggiare come fiamme.C’erano ancora i versi delle cicale, il rombo di un trattore lontano e il silenzio, quello vero, che solo i luoghi antichi sanno offrire.
Lì, in quel momento, capii che non stavo solo viaggiando nella Tunisia di oggi, ma stavo attraversando la Tunisia romana, quella che aveva visto legioni, mercanti, architetti e schiavi, quella che aveva costruito teatri per gli dèi e fori per il potere.E davanti a me, in fondo alla strada, l’ombra del teatro di Thugga sembrava aspettarmi da secoli.
Quando arrivi a Thugga, capisci subito che non è un luogo: è una dimensione. Il tempo qui non scorre, si allarga. Tutto è sospeso tra la storia e la luce, tra il vento che sferza l’erba alta e la pietra che ricorda. Scendi dall’auto, chiudi la portiera, e il rumore del motore si spegne come un’eco che si allontana. Rimane solo il silenzio, un silenzio denso, pieno, tagliato appena dal canto lontano di un gallo o dal fruscio delle cicale.
Davanti, il sito archeologico di Thugga — o Dougga, come la chiamano gli studiosi — si distende come un’enorme mappa di pietra. È considerato uno dei più importanti resti della Tunisia romana, patrimonio mondiale dell’UNESCO, e quando lo si guarda dall’alto si capisce perché: una città intera scolpita nel tempo, rimasta quasi intatta, poggiata su una collina che domina la valle del Medjerda. Cammini tra i sentieri polverosi e ti sembra di entrare in un sogno. I Romani la chiamavano Thugga perché qui, su questo altopiano, costruirono una delle loro colonie più ricche: strade lastricate, terme, fori, templi, case. E tutto è ancora lì.
Il primo impatto è con il teatro romano di Thugga, perfettamente conservato.Ti basta metterti al centro dell’orchestra, chiudere gli occhi e sentire l’acustica che ancora funziona, anche dopo duemila anni. Ogni passo risuona, ogni voce rimbalza tra le gradinate di pietra. Si dice che il teatro potesse ospitare fino a 3.500 spettatori. Oggi, però, lo spettacolo è la solitudine: solo vento, sole e architettura. Le colonne del palcoscenico proiettano ombre lunghe e geometriche, e l’odore dell’erba secca si mescola a quello del calcare.

Poi si risale verso il cuore della città. La strada romana, perfettamente selciata, conduce al foro. Le pietre sono levigate dai secoli, e quando le calpesti senti il passo di chi ti ha preceduto. Il foro romano di Thugga è ancora leggibile nella sua struttura: il podio, i basamenti, i resti del Capitolium dedicato a Giove, Giunone e Minerva, costruito nel 166 d.C., svetta in alto, dominando l’intera pianura. Tre colonne corinzie resistono ancora, superbe, come guardiani di un mondo che non c’è più ma che si rifiuta di scomparire.

Ti fermi un istante e pensi a chi ha posato quelle pietre, al genio e alla presunzione di Roma, capace di piantare la sua architettura perfetta anche nel cuore dell’Africa. Lì, tra la luce bianca e il canto del vento, l’Impero Romano in Tunisia prende forma tangibile, quasi umana.
Proseguendo, si arriva alle abitazioni private, ancora visibili con i loro pavimenti a mosaico. Le case di Thugga non erano modeste: avevano cortili interni, cisterne d’acqua, e sale di ricevimento decorate con geometrie ancora nitide. In una di queste, si riconoscono i resti del triclinium, dove i padroni di casa banchettavano sdraiati, circondati dal profumo dell’olio e del vino del Medjerda.

Ogni tanto, tra le pietre, si incrociano lucertole, o il rumore lontano di una moto che sale dal villaggio moderno di Dougga. Ma bastano pochi secondi per tornare al silenzio.
Scendendo verso la parte bassa del sito, si incontra il tempio di Saturno, costruito sulle rovine di un antico santuario punico. È uno dei luoghi più enigmatici di tutto il sito. Le colonne restano in piedi come dita rivolte al cielo, e il vento passa tra gli interstizi come un mormorio. Qui Roma e Cartagine si toccano, si sovrappongono, si confondono. È come se l’anima punica del luogo non avesse mai voluto arrendersi del tutto, restando intrappolata nelle fondamenta.

Intorno, la campagna tunisina si apre in tutte le direzioni: uliveti, colline, e quell’infinito senso di vuoto che solo certi luoghi sanno restituire. L’odore della terra calda, il ronzio degli insetti, il cielo che a mezzogiorno si fa bianco, come cancellato.Ti siedi su una pietra e resti lì, a guardare. Nel pomeriggio, la luce cambia tono. Il sole comincia a piegarsi e le colonne si tingono d’oro. L’ombra del Capitolium si allunga fino al foro e il teatro si riempie di silenzio. Sembra quasi che Thugga si svegli, lentamente, e ricominci a respirare.È come se la città romana si scrollasse di dosso i secoli e tornasse viva per un attimo, solo per mostrarsi ancora una volta al mondo.
Quando riparti, il vento entra dal finestrino e porta con sé la polvere fine delle pietre.Ti volti un’ultima volta: dietro, Thugga resta immobile, colossale e fragile insieme, come se aspettasse il ritorno di qualcuno. Forse di chi l’ha costruita. Forse di chi l’ha capita. Forse solo del tempo.
Mentre scendi lentamente verso l’uscita del sito, ti accorgi che Thugga ti è entrata dentro. Non è più un luogo, è una sostanza. Ti attraversa come una droga sottile: invisibile, ma necessaria.Non smetti di pensarci. Ti sembra di sentirla anche a chilometri di distanza, nella polvere rimasta sulle scarpe, nella pelle che sa ancora di sole e calcare. Ti accorgi che vuoi tornarci, che ne hai bisogno.Perché Thugga non la visiti: la assorbi.
È come se la città ti adottasse, ti inglobasse nella sua memoria.Cammini e all’improvviso non stai più camminando tra rovine.Le colonne non sono più scheletri, ma sostegni vivi di case e di portici.L’arena del teatro si riempie di suoni: applausi, cori, risate, e il rumore delle tuniche che si sfiorano salendo i gradini.Vedi i legionari che scendono dal pendio con le corazze lucide, i mercanti che trattano i prezzi dell’olio, le matrone romane avvolte in stoffe leggere che parlano tra loro, mentre i ragazzi libici portano anfore e raccolgono l’acqua alla fontana.
Senti gli odori, tutti insieme, senza pietà: lo sterco dei cavalli che fermenta al sole, il sudore, il pane appena cotto, l’olio d’oliva versato nelle giare, l’aroma pungente del mosto.Ogni respiro è un ritorno nel tempo.Ti sembra di essere parte di quel mondo, di condividere la stessa aria, la stessa luce.
Cammini lungo la via principale e ti pare che il terreno vibri, come se sotto la pietra ci fosse ancora il battito della città.Dalle botteghe arriva il suono metallico del martello sull’incudine; una donna urla al figlio di non correre; un uomo trascina un cavallo stanco.Un gruppo di senatori, con le tunique bianche orlate di porpora, passa lentamente sotto il colonnato, discutendo di politica, di tasse, di raccolti.Ogni passo che fai, li attraversi, e loro non si accorgono di te.Sei uno spettro del futuro che cammina nel loro presente.
Ti fermi davanti al foro romano. Il sole colpisce le colonne e ti acceca.Ti sembra di udire il vociare del mercato, le voci che si accavallano: “Oliva di Dougga! Pane fresco! Vino del Medjerda!”.Le risate dei bambini, il richiamo dei venditori, il fruscio dei sandali sulla pietra levigata.Ti volti e credi di intravedere, in controluce, un centurione che attraversa la piazza. Il suo passo è lento, solenne.Senti il tintinnio del metallo e lo stridere di un carro che si ferma all’angolo.L’odore degli animali si mescola a quello del fumo di legna.
Thugga in quel momento non è un sito archeologico: è un’illusione perfetta. Tutto ritorna per un attimo — la città viva, pulsante, respirante.Non vedi più le rovine, ma le case intere. Non guardi più il passato, lo vivi.E allora ti rendi conto che la Tunisia romana non è un ricordo scolpito nella pietra, ma una presenza che ancora si muove nell’aria, nel vento, nella luce che filtra tra le colonne. Ti siedi sul gradino del teatro romano, lo stesso su cui si saranno seduti spettatori di duemila anni fa, e chiudi gli occhi. Senti le voci del pubblico, il suono dei flauti, il fruscio delle tende.Poi il vento cambia direzione, e la scena svanisce.Riapri gli occhi, e il teatro torna vuoto, silenzioso, ma non più morto.Ora ti accorgi che quel silenzio non è assenza — è memoria.
Thugga resta lì, nella mente, come una dipendenza gentile.Sai che ci tornerai, anche solo per respirare di nuovo quell’aria che sa di pietra e tempo.E quando ripartirai, porterai con te la sensazione precisa di aver vissuto due volte: una nel presente, e una in quell’altra vita, quella che continua a pulsare, invisibile, sotto la superficie della Tunisia.
✍️ Testo di Max Ramponi
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